1 – IL LUNGO VIAGGIO

DAL DIARIO DI ANGELO GALEANDRO (15 NOVEMBRE 2021)

Dalla partenza da Roma all’arrivo a Concordia, Angelo Galeandro ci racconta le difficoltà di viaggiare ai tempi della pandemia, tra restrizioni e controlli necessari a garantire una missione Covid-free, e …

IL LUNGO VIAGGIO

Sono partito dall’Italia sabato 16 ottobre 2021. Il viaggio è stato particolarmente lungo. Rispetto alle altre volte, in cui il volo intercontinentale dall’Europa partiva in serata, questa volta la partenza da Roma Fiumicino è avvenuta intorno alle 8.30. Siamo partiti in gruppo (circa 30 persone) e, dopo uno scalo tecnico di un paio d’ore a Copenaghen, alle 12.30 circa è cominciato il lungo volo che ci avrebbe portato a Christchurch, in Nuova Zelanda. L’unico scalo è stato fatto a Singapore, dove l’aereo è atterrato alle 6.20 ora locale (00.20 ora italiana) del 17 ottobre. E qui i primi disagi, in quanto siamo arrivati in aeroporto in un orario in cui mediamente si comincia a pensare di andare a letto. A noi toccava, invece, aspettare per circa 17 ore il volo successivo.

L’aeroporto di Singapore, uno dei più belli e dei più grandi al mondo, sia per dimensioni, sia per volume di traffico, era abbastanza inquietante. Era aperta solamente una piccola zona in cui eravamo costretti a restare per via delle restrizioni dovute al COVID. Pochissimi i bar e i negozi aperti, pochissime le persone che transitavano. Qualcuno è riuscito a dormire sulle poltrone sparse un po’ dappertutto, io invece, dato il mio pessimo rapporto con il sonno, sono rimasto sveglio tutto il tempo, nonostante per il mio organismo fosse ormai tempo di dormire. Tra chiacchiere, tentativi di addormentarmi miseramente falliti ed un hamburger con patatine fritte e birra, sono arrivate le 23.30 ore locali (le 17.30 ora italiana). E via con il secondo volo intercontinentale verso Christchurch, dove siamo atterrati intorno alle 14.00 ora locale (le 3.00 ora italiana) del 18 ottobre. E da quel momento è cominciata la lunga “passione” dell’isolamento preventivo.

L’ISOLAMENTO PREVENTIVO IN NUOVA ZELANDA

Chiunque sia entrato in Nuova Zelanda, sia per lavoro, sia per turismo, entro il 14 novembre (il nostro caso) è stato obbligato ad un isolamento preventivo di 14 giorni dovuto alla pandemia di COVID (a partire dal 14 novembre il periodo di isolamento è stato ridotto a 7 giorni). L’isolamento deve essere fatto obbligatoriamente in alcune strutture convenzionate (tipicamente degli hotel) con costi a proprio carico, definiti dal Ministero della Salute locale. I costi sono comprensivi di colazione, pranzo, cena e 4 tamponi molecolari. Il primo tampone deve essere fatto il giorno dell’arrivo o, al massimo il giorno successivo. Se l’esito è negativo, si ha la possibilità di uscire dalla stanza in determinati orari (che sono a discrezione della struttura), per circa un’ora per volta, indossando la mascherina ed osservando il distanziamento minimo di 2 metri. I tamponi successivi sono fatti al 3°, 6° e 12° giorno dall’arrivo e solo l’esito negativo consente di continuare ad usufruire delle ore d’aria. Un eventuale esito positivo azzera il countdown dei 14 giorni e si ricomincia daccapo (con un ovvio incremento dei costi). A parte le ore d’aria, c’è l’obbligo di rimanere chiusi in stanza. Nel caso di richieste (cambio asciugamani o lenzuola), bisogna chiamare la reception, attendere che il personale dell’hotel depositi quanto richiesto dietro la porta, aspettare che si allontani e poi recuperare il tutto. Scesi dall’aereo, ci si mette in fila distanziati di almeno 2 metri e si comincia una serie di controlli (è richiesto un tampone molecolare con esito negativo fatto nelle ultime 72 ore dall’arrivo, domande sullo stato di salute attuale, misurazione della temperatura corporea). Si sale, quindi, su diversi autobus (dalla capienza limitata vista la regola del mantenimento della distanza minima di 2 metri) che portano direttamente nell’hotel definito (che non può essere scelto dal viaggiatore, ma viene assegnato al momento sulla base delle disponibilità in quanto deve ospitare l’intero gruppo di persone sbarcate dall’aereo). Arrivati nella struttura, vengono fatti gli stessi controlli appena fatti in aeroporto, poi ci si dirige nella stanza assegnata. Il tutto sotto la supervisione di personale della struttura e di militari dell’esercito.

L’albergo che ci è capitato (Novotel) è adiacente l’aeroporto. Arrivato in stanza (mi è capitata una stanza con vista sulla pista, contrariamente ad altri a cui è capitata una stanza con una più triste vista sul parcheggio), ho cercato di resistere il più possibile, in modo da addormentarmi nella serata locale, ma ho ceduto al sonno intorno alle 20.00 (le 7.00 ora italiana). D’altra parte ero ormai sveglio da ormai circa 53 ore.

 

La vista dalla mia stanza dell’hotel sulla pista dell’aeroporto di Christchurch

 

A parte la prima notte, in cui ho dormito 7 ore, più che altro per la stanchezza, ho impiegato una settimana per normalizzare il mio ciclo sonno/veglia e dormire le 5-6 ore abituali. Le stanze dell’albergo erano tutto sommato confortevoli. Il vitto discutibile. A parte la colazione (composta tipicamente da una combinazione di latte, yogurt, cereali, croissant, pane, burro, marmellata, un succo ed un frutto) il resto era un miscuglio di cucina orientale rivisitata. Le materie prime sono sicuramente di qualità, ma la maniera in cui vengono combinati i vari ingredienti è abbastanza sconfortante. La cosa più strana che ho mangiato è stata una accozzaglia di sedano, noci, chicchi d’uva e pezzetti di mela, il tutto annegato in una salsa a base di maionese. E poi carne molto buona che, però, veniva letteralmente coperta o affogata in salsa di dubbia composizione che ne deturpava il sapore. Altro che “coccole per il palato” (cit.).

Alla fine si finisce per mangiare per fame più che altro. E i pasti scandiscono il tempo che passa tra letture, tv, videochiamate, esercizi a corpo libero e ore d’aria (nel nostro hotel massimo 2 turni al giorno di un’ora a partire dalle 6.00, fino alle 21.00). Queste ultime si consumavano nel tristissimo spiazzo antistante l’hotel, largo circa 4 metri e lungo circa 50, circondato da reti metalliche con il personale dell’hotel e dell’esercito che controllava il distanziamento e l’uso corretto della mascherina. Da questo punto di vista ci è andata abbastanza male, ci sono hotel in cui l’ora d’aria si trascorre in parchi, con alberi, prati, farfalle e quanto altro di bucolico si possa immaginare.  È stata una esperienza alquanto alienante. Poi, il 12° giorno è anche arrivata la notizia di una circolare del Ministero della Salute che, a partire dal 14 novembre, riduceva il periodo di isolamento da 14 a 7 giorni. Lascio a voi immaginare come ci siamo sentiti.

Avendo la vista sull’aeroporto mi sono reso conto del bassissimo traffico aereo. Nei giorni più trafficati, arrivavano non più di 15 aerei, e da ogni aereo sbarcavano non più di 30 persone. Avevo sotto controllo anche il C130 dell’Aeronautica Militare Italiana che, finito il periodo di isolamento, ci avrebbe catapultati nel continente bianco. In quei giorni ho assistito alla partenza dei gruppi di personale antartico che ci precedevano, invidiandoli perché avevano ormai alle spalle il periodo di isolamento.

VERSO IL SESTO CONTINENTE

Passati i 14 giorni, dalle 14.00 del 1 novembre, siamo stati trasferiti in un altro hotel situato nel centro della città. Qui finalmente ci siamo liberati delle restrizioni dovute al COVID. L’hotel, però, non è dei più belli, anzi abbastanza tetro, con stanze piccolissime (la mia si affacciava su un cortile interno per cui vedevo solamente un muro).

Alcuni dei winterover festeggiano la fine dell’isolamento preventivo (foto di Thomas Gasparetto)

 

Fortunatamente ci siamo rimasti solo poche ore (rispetto ai due gruppi che ci avevano preceduti, che erano rimasti lì rispettivamente per 6 e 12 giorni), perché alle 2.00 circa del 2 novembre (le 13.00 del 1 novembre ora italiana) siamo stati trasferiti in aeroporto dove, dopo esserci imbarcati sul C130, siamo decollati alle 5.30 per essere trasportati in Antartide. L’aereo era pienissimo di materiale, per cui siamo stati stipati in un corridoio di appena 150 cm, seduti l’uno di fronte all’altro, senza possibilità di stendere i piedi. Anche andare in bagno era un’impresa, dovendo cercare di evitare di calpestare i piedi di decine di persone. E il fatto di dover viaggiare in tenuta antartica, abbastanza ingombrante, non facilita certo i movimenti. Ma non è tutto. Gli aerei cargo militari, pur essendo pressurizzati, non sono insonorizzati. Durante il volo bisogna quindi indossare dei dispositivi di protezione (tappi o cuffie), ma, nonostante questi, il rumore è talmente forte da stordire a lungo andare. Se tutti questi disagi vengono moltiplicati per 6 ore e mezzo, ossia il tempo di volo, il quadro è piuttosto chiaro.

 

Il viaggio dalla Nuova Zelanda al continente antartico stipati nel C130 dell’Aeronautica Militare Italiana

 

Siamo atterrati sul pack nella baia antistante la base italiana MZS (Mario Zucchelli Station, dal nome dell’ingegnere che ha dato vigore al PNRA, Programma Nazionale di Ricerche in Antartide italiano, negli anni ’80 e ’90 dello scorso secolo) intorno alle 11.30 del 2 novembre locali (le 22.30 del 1 novembre ora italiana)   . Giusto in tempo per il pranzo, finalmente a base di cucina italiana. L’emozione, che mi pervadeva sin dal giorno della partenza, ha trovato uno dei momenti di culmine quando sono sceso dall’aereo ed ho toccato il mare ghiacciato.

 

L’arrivo a MZS con l’atterraggio sul mare ghiacciato nella baia antistante la base

 

Ritornavo in un posto da cui mancavo ormai da 5 anni, ma, soprattutto, in cui ero convinto di non tornare mai più. Uno dei requisiti per partecipare ad una campagna antartica come personale “scientifico”, infatti, consiste nell’essere preventivamente contrattualizzato presso un ente di ricerca (Universita, CNR, INGV, ENEA, ecc), requisito che io avevo perso appunto 5 anni prima per scelta personale. Poi quest’anno, una serie di incredibili eventi ha fatto sì che io fossi selezionato e potessi ritornare in questo luogo per me magico.

CINQUE GIORNI A MARIO ZUCCHELLI STATION

Mancavo da MZS dal febbraio 2017, quando avevo fatto la mia terza missione consecutiva in questa base (la prima nell’estate 2014/15), durata ben 110 giorni.  È stato particolarmente emozionante rivedere luoghi e persone che non vedevo da così tanto tempo, alcune delle quali nemmeno più sentite. MZS, costruita 37 anni fa, è una base permanente situata sulla costa che si affaccia sul Mare di Ross, più in particolare sulla Baia di Terra Nova. Precedentemente, infatti, la base era nota con l’acronimo BTN (Baia Terra Nova) o TNB (Terra Nova Bay). La locazione è stata scelta non a caso, in quanto sorge su un tratto di costa che, durante la stagione estiva (novembre – febbraio), è quasi completamente deglaciato. Inoltre, le montagne a ridosso, parte della lunga catena montuosa che attraversa l’intero continente (Transantactic Mountains), pur essendo non molto alte in quella zona, la proteggono per la gran parte del tempo dai venti catabatici, ossia quei venti che si originano sulla calotta antartica (la zona centrale del continente, interamente coperta di ghiaccio), costituiti da masse d’aria che, essendo molto più fredde rispetto a quelle costiere, si spostano verso l’esterno non per la differenza di pressione, bensì per il fatto che tendono a “scivolare” lungo la calotta a causa della forza di gravità. Così, a seconda della conformazione della calotta antartica, i venti possono raggiungere velocità importanti (tipicamente 100 km/h durante la stagione estiva, 200 km/h durante la stagione invernale con punte di 250 km/h). La topografia del territorio circostante la base, quindi, contribuisce ad un microclima che, generalmente, durante la stagione estiva, è molto mite e confortevole, ovviamente rispetto al contesto in cui si trova. La temperatura, che durante l’inverno difficilmente è inferiore a -40°C, in estate può anche salire sopra lo zero. La poca umidità rende la percezione del freddo molto diversa rispetto a quella cui siamo abituati, per cui in una giornata di sole estiva, in assenza di vento, con una temperatura prossima a 0°C è possibile stare all’aperto  anche in t-shirt senza problemi.

Vista panoramica della base e della baia antistante, sullo sfondo il Monte Melbourne, un vulcano quiescente (foto Angelo Galeandro)


Il vulcano Melbourne si tinge di rosa al tramonto (foto di Paola Cianfarra)

I programmi scientifici che vengono svolti a MZS rientrano principalmente nei campi della biologia, geologia, geomagnetismo, geodesia, meteorologia, fisica e chimica dell’atmosfera e diversi altri. La stazione funge anche da hub per il trasporto aereo di personale e merci verso la stazione Concordia, situata a circa 1200 km di distanza, sulla calotta antartica, a  oltre 3200 m s.l.m., meta finale del mio viaggio. Delle circa 30 persone con cui ero arrivato in Antartide, circa la metà era destinata alla stazione Concordia. A questi si aggiungevano altre 15 persone che erano già arrivate a MZS ed erano in attesa di trasferimento. Il volo per Concordia è fatto con un DC3 (chiamato anche Basler), un aereo bielica disegnato forse negli anni ’30 o ’40 del secolo scorso. Potendo trasportare solo 18 persone, erano necessari 2 voli per portarci tutti. Così, mentre parte del personale logistico è partito immediatamente dopo essere sbarcato dal C130, io ed altri siamo rimasti “ospiti” a MZS per 5 giorni, in attesa del secondo volo.

Vista della Tethys Bay (foto di Angelo Galeandro)

I cinque giorni sono trascorsi molto velocemente. Ho approfittato per aiutare una collega che svolge il lavoro che svolgevo io durante le tre missioni antartiche passate in questa base tra il dicembre 2014 e il febbraio 2017. Ho anche avuto la fortuna di accompagnarla in un sito remoto, distante circa 300 km dalla base, per fare manutenzione ad alcuni strumenti. In questi casi, gli spostamenti sono fatti in elicottero, il mezzo ideale per godersi gli incredibili paesaggi tipici di questi luoghi. Per arrivare sul sito bisogna volare lungo la catena delle Transantarctic Mountains che, in questa zona, arriva quasi a picco sul mare ghiacciato.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


Gli incredibili paesaggi antartici

Con noi era presente anche una biologa che doveva effettuare alcune ricerche presso due grosse colonie di pinguini, una di pinguini di Adelia, una di pinguini Imperatore. Sono due delle quattro specie di punguini che vivono in Antartide, i primi che, in questo periodo, approntano il nido su zone deglaciate per prepararsi alla nascita dei pulcini, i secondi (molto più grandi, devono infatti il loro nome alla maestosità del loro portamento) che vivono sul pack ed hanno già pulcini piuttosto grandi anche se ancora ricoperti di un piumaggio grigio che li differenzia dagli adulti. Nelle tre missioni trascorse nella base MZS in passato non avevo mai avuto l’occasione di visitare queste colonie, quindi è stata per me una emozione molto molto gradita. A prescindere dalla specie, i pinguini sono animali molto curiosi, non riconoscendo l’uomo come un predatore, si avvicinano muovendosi eretti sulle zampe posteriori con il loro classico portamento, oppure scivolando sul torso. Per salvaguardarli ed evitare di trasmettergli eventuali batteri o virus sconosciuti al loro organismo, è vietato avvicinarsi a meno di 5 metri (a meno che si abbia una motivazione di ricerca per farlo), ma sono talmente curiosi che spesso accade di trovarseli alle spalle a distanze anche inferiori al metro. In questi casi è bene allontanarsi molto lentamente per evitare di spaventarli.

Angelo Galeandro tra i pinguini di Adelia (foto di Simonetta Montaguti)

 

Angelo Galeandro tra i pinguini Imperatore (foto di Simonetta Montaguti)

L’ULTIMA TAPPA

Domenica 7 dicembre è arrivata la conferma del volo che ci avrebbe portati nella stazione Concordia. Era arrivato il momento di intraprendere l’ultima tratta del lungo viaggio cominciato il 16 ottobre. La base in cui ero vissuto per un anno intero tra il dicembre 2010 e il dicembre 2011, nella mia prima missione in Antartide, e che avevo imparato a chiamare “casa”, era sempre più vicina. Durante le tre missioni svolte a MZS avevo sempre desiderato tornarci, anche solo per pochi giorni. Ma non era mai stato possibile. Ero convinto che non ci sarei mai più tornato e invece ero lì, in attesa di imbarcarmi per un volo che, dopo 5 ore, mi avrebbe riportato in uno dei luoghi che più ho amato sinora. Il DC3 è decollato intorno alle 12.30 (le 00.30 ora italiana) e dopo circa mezz’ora aveva raggiunto la quota di circa 3500 metri.

Il DC3 che ci avrebbe trasportati a Concordia

 

Questo aereo, oltre a non essere isolato acusticamente, non è nemmeno pressurizzato, per cui si passa da una pressione atmosferica di circa 1000 mbar, tipica del livello del mare, ad una pressione di circa 600-650 mbar in pochissimo tempo. Se si rimane per diverse ore a quote simili (era proprio il nostro destino), l’organismo non riesce ad adeguarsi in poco tempo, per cui spesso si incorre nel cosiddetto “mal di quota”, i cui sintomi possono essere vari, tra cui spossatezza, capogiri, emicrania, affanno, sensazione di soffocamento, nausea, ecc. In alcuni casi l’adattamento non avviene, la saturazione del sangue scende a livelli   allarmanti e bisogna essere evacuati e riportati quanto prima possibile a livello del mare. Il tutto perché una pressione inferiore, significa meno ossigeno a parità di volume d’aria, che l’organismo deve compensare aumentando la quantità di globuli rossi nel sangue. Gli effetti del “mal di quota” sono molto soggettivi. Cosa ci sarebbe accaduto?

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