2- IL RITORNO A CONCORDIA

DAL DIARIO DI ANGELO GALEANDRO (21 NOVEMBRE 2021)

È emozionante tornare a Concordia dopo tanti anni. I ricordi sopiti tornano alla mente e le emozioni si fanno più forti….
Mentre cerca di superare il jet lag e il mal di quota, Angelo ci racconta momenti di vita a Concordia, il passaggio di consegne, le esercitazioni, la convivenza e l’adattamento del corpo alle condizioni metereologiche estreme.

RIASSUNTO DELLE PUNTATE PRECEDENTI

Partito dall’Italia alle 8.30 circa del 16 ottobre, dopo un lunghissimo viaggio, intervallato da un interminabile scalo a Singapore (ben 17 ore), sono arrivato a Christchurch, in Nuova Zelanda, alle 14 (le 3 ora italiana) del 18 ottobre. Ero in compagnia di un gruppo di 30 persone, in parte dirette alla base italiana MZS (Mario Zucchelli Station), situata sulla costa nella regione del Mare di Ross, in Antartide, in parte alla stazione italo-francese Concordia, situata sul plateau antartico a circa 3200 m di quota, mia destinazione finale. Affrontare i 14 giorni di isolamento preventivo, sempre chiuso in stanza, con un paio di uscite al giorno di 1 ora circa l’una, è stato abbastanza alienante, e il cibo non ha certo aiutato. Ma alla fine il tempo è trascorso e il 2 novembre, a bordo di un C130 dell’Aereonautica Militare Italiana, siamo stati portati in Antartide. Atterrati sul mare ghiacciato nella baia antistante la base MZS, alcuni di noi sono partiti subito per Concordia, altri (tra cui io) si sono trattenuti in attesa del secondo volo. Ritornare a MZS dopo 5 anni è stato bellissimo, nei giorni trascorsi lì ho aiutato una collega e questa attività mi ha anche portato a fare un lungo giro in elicottero, il che mi ha dato la possibilità di visitare due grosse pinguinaie. Il 7 novembre ci siamo infine imbarcati sul DC3, un aereo bielica, diretti a Concordia che, per alcuni di noi (i cosiddetti “invernanti”) sarebbe stato il luogo di permanenza per un anno intero.

RITORNO A CONCORDIA

Dopo un volo di circa 5 ore, i pattini del DC3 hanno toccato la superficie ghiacciata del plateau antartico nei pressi della stazione Concordia, unico avamposto umano nel raggio di circa 600 km. Le emozioni, pur forti, provate nel tornare in Antartide, nel rivedere la base MZS e i luoghi ormai familiari che la circondano, sbiadivano in confronto all’ebbrezza provata nel rivedere le due torri che costituiscono il corpo principale di questa stazione. Mancavo da qui da 10 anni, ero andato via dopo un anno intero trascorso tra il dicembre 2010 e il dicembre 2011, vivendo una delle esperienze più belle ed affascinanti della mia vita, sicuramente la più intensa, desideroso di tornarci quanto prima, ma non ne avevo più avuto la possibilità. Ho ancora impresso nella mente la sensazione del freddo che provai sul volto, unica parte scoperta del mio corpo, nel momento in cui, il 15 dicembre del 2010, si aprì il portellone dell’aereo. All’epoca la temperatura era di circa -30°C ed era la prima volta nella mia vita che mi ci esponevo. Mi aspettavo una sensazione simile, invece, stranamente, non ho sentito il freddo intenso investirmi. Eppure, come ho scoperto più tardi, la temperatura era di circa -45°C. Ovviamente il freddo si è fatto sentire sempre più sul volto man mano che il tempo passava e noi eravamo all’esterno, in attesa che ci dessero il via libera per l’ingresso in base, ma l’impatto non è stato lo stesso della prima volta. Chissà, forse a livello inconscio, avendo già sperimentato temperature così basse, e ancora più basse, questo nuovo primo impatto con il freddo intenso non è stato registrato come una novità dal mio cervello.

L’arrivo a Concordia (foto di Marco Smerilli)

 

Erano le 17.30 circa ora di MZS, ossia le 6.30 circa ora italiana. La novità, adesso, consisteva nel fatto che a Concordia l’orologio segnava le 12.30, ossia la stessa ora che segnava l’orologio di MZS quando eravamo partiti. Ci eravamo spostati di 1200 km prevalentemente in direzione ovest, ma il tempo si era fermato. Ovviamente, il tutto dipende dal fatto che ai poli i fusi sono molto più stretti, per cui muovendosi in direzione longitudinale, i fusi orari cambiano molto più velocemente. Tra MZS e Concordia, ossia in una distanza paragonabile a quella esistente tra Palermo e Milano, quindi, ci sono ben 5 fusi orari. Tutto questo per noi rappresentava un problemino non da poco. Avevamo smaltito da poco il jet lag dovuto allo spostamento tra Italia e Nuova Zelanda/MZS, ora dovevamo ricominciare tutto daccapo. E in condizioni molto più difficili. C’era anche il “mal di quota” da affrontare, uno stato di malessere che si presenta quando si arriva ad alta quota in pochi minuti (e a noi proprio questo era successo viaggiando in un aereo non pressurizzato), con tutti i suoi dannati possibili effetti, consistenti, tra le altre cose, in spossatezza, capogiri, emicrania, affanno, sensazione di soffocamento, nausea, fino a sintomi più problematici come diarrea e vomito, e seri come l’edema polmonare. Il tutto perché l’organismo deve abituarsi ad una situazione ambientale in cui, a causa della pressione atmosferica più bassa, è presente circa il 60-65% dell’ossigeno presente al livello del mare. Il “mal di quota” non è immediato ed i suoi effetti cominciano a presentarsi dopo qualche ora, ognuno reagisce in maniera differente, presentando una combinazione diversa dei sintomi precedentemente elencati, che si presentano con una intensità differente da soggetto a soggetto.

A scopo precauzionale avevo preso 2 aspirine a partire dalla sera precedente la partenza da MZS. All’arrivo, dopo aver mangiato qualcosa, ne ho presa un’altra. L’aspirina, fluidificando il sangue, rende più veloce il trasporto di ossigeno al cervello e ciò può aiutare ad affrontare meglio gli effetti del “mal di quota”. In effetti, a parte un po’ di senso di smarrimento e spossatezza, durati per circa 36 ore dall’arrivo, non ho avuto altri sintomi. C’è stato però chi ha avuto forte emicrania, nausea, vomito e febbre. La saturazione dell’ossigeno nel sangue (di cui tutti hanno ormai sentito parlare da un paio d’anni a questa parte a causa della pandemia COVID), che normalmente a livello del mare ha valori di 98-99, può scendere fino a valori di 70-75 e, in quel caso, è necessario prendere l’ossigeno da una  bombola   per recuperare. In alcuni casi, rari fortunatamente, nonostante tali accorgimenti, l’organismo non riesce a compensare e si deve essere evacuati e riportati a livello del mare nel più breve tempo possibile, altrimenti si rischiano gravi complicazioni, persino  la morte. Mediamente, per la gran parte delle persone, gli effetti del “mal di quota” svaniscono nel giro di 36-48 ore. Per non andare incontro a situazioni problematiche, si deve evitare il più possibile, in questo lasso di tempo, di compiere qualunque sforzo e, per questo, il personale già ambientato provvede, per esempio, a portare le valigie dei nuovi arrivati nelle camere loro assegnate.

Passati 3 giorni dall’arrivo, tutti avevamo passato più o meno bene la prima fase di ambientamento. E visto che va tanto di moda parlarne, la saturazione del sangue si era stabilizzata su valori di 91-92, che a livello del mare sono preoccupanti, ma qui sono normali. Cominciava ora la seconda fase dell’ambientamento, che può durare anche mesi. L’organismo lavora “in background” senza che insorgano sintomi particolarmente evidenti, per far si che il corpo adegui le sue funzioni vitali ad un ambiente con temperatura, umidità e pressione molto differenti dalla normalità.

UN PO’ DI STORIA

Il sito in cui sorge la base, noto come Dome C, apparentemente scelto in maniera causale sul plateau antartico, in realtà è stato individuato nella seconda metà degli anni ’90 per uno studio diretto ad avere una statistica completa relativa ai parametri climatici ed atmosferici, così come conservati sugli strati di ghiaccio che, nel corso del tempo, si sono depositati sulla calotta antartica.

Il progetto scientifico, noto come EPICA (European Project for Ice Coring in Antarctica), è stato finanziato dall’Unione Europea ed alla sua realizzazione hanno contribuito diverse nazioni, tra cui Italia e Francia. Il carotaggio, profondo oltre 3 km, ha permesso di estrarre ghiaccio vecchio di circa 800 mila anni e, dalle analisi fatte, si è potuto vedere, tra le altre cose, l’andamento temporale della concentrazione di anidride carbonica presente in atmosfera. Come risaputo, l’anidride carbonica è uno dei gas principali protagonisti dell’effetto serra ed infatti il suo andamento ciclico (ogni ciclo dura circa 100 mila anni), legato alla normale attività vulcanica del pianeta, è perfettamente in sincronia con i cicli di aumento e diminuzione della temperatura media degli strati più bassi dell’atmosfera. Lo studio ha confermato che, negli ultimi 200 anni, a partire, quindi, dalla rivoluzione industriale, la concentrazione di anidride carbonica ha raggiunto valori pari al doppio della concentrazione massima che si era avuta nei cicli precedenti, evidenza del fatto che l’attività umana ha profondamente modificato l’andamento naturale dei parametri atmosferici. Poiché in corrispondenza dell’aumento della concentrazione di anidride carbonica è sempre corrisposto un aumento della temperatura media, si prevede che tale andamento sia confermato nei prossimi decenni con conseguenze non del tutto prevedibili per il clima e il delicato ecosistema terrestre.

Concluso il progetto EPICA nel 2004, Italia e Francia decisero di continuare ad utilizzare il sito per ulteriori ricerche scientifiche in svariati campi come la glaciolocia, l’astronomia, la fisica e chimica dell’atmosfera, la meteorologia, il geomagnetismo, ecc., e, con uno sforzo congiunto, realizzarono l’attuale base. Concordia è una delle tre basi permanenti aperte tutto l’anno situate sul plateau antartico, le altre due sono South Pole (statunitense, situata in corrispondenza del polo geografico) e Vostok (russa, situata a circa 600 km da Concordia), ed è l’unica base antartica cogestita da due nazioni. Da qualche anno, nei pressi di Concordia, a circa 40 km di distanza, è stato avviato un altro progetto, chiamato “Beyond EPICA“, il cui scopo è di effettuare un carotaggio per cercare ghiaccio vecchio di oltre un milione di anni, così da aumentare a ritroso nel tempo la banca dati fornita dal progetto EPICA.

Il corpo principale della base è costituito da due torri cilindriche, ciascuna costituita da 3 piani, rialzate rispetto alla superficie del ghiaccio, collegate da un corridoio al primo piano. Le due torri sono chiamate edificio calmo (dove si trovano, dal basso verso l’alto, l’ospedale, le camere da letto, i laboratori per l’attività scientifica e la sala radio) ed edificio rumoroso (dove sono presenti l’ufficio tecnico, la ferramenta, la palestra, la sala video, i magazzini per la conservazione di parte dei viveri, la cucina, la mensa e la living room). Nella base sono presenti 34 posti letto. Ulteriori posti letto sono disponibili al cosiddetto “summer camp” (chiamato così perché è aperto e funzionale solo durante il periodo estivo), costituito da una serie di container e di tende, campo originario che aveva ospitato il personale logistico e scientifico durante il carotaggio del progetto EPICA.

Le tende del “summer camp” (foto di Angelo Galeandro)

 

Nel complesso, quindi, la base può accogliere circa 70 persone. Durante il periodo in cui non è presente il personale estivo (febbraio – novembre), la base potrebbe in teoria accogliere 34 persone, ma sinora le squadre di invernanti sono state costituite da 12-15 persone.

La stazione Concordia vista dal laboratorio di Glaciologia

La stazione Concordia vista dalla Torre Americana (foto di Angelo Galeandro)

 

La stazione Concordia vista dal laboratorio di Astronomia (foto di Angelo Galeandro)

 

L’affascinante desolazione dell’ambiente circostante la stazione Concordia (foto di Angelo Galeandro)

 

 

 

 

 

 

 

VIVERE A CONCORDIA

Spesso ho sentito amici e conoscenti che, sapendo della mia partenza per l’Antartide, ed in particolare il fatto che dovessi trascorrerci un anno intero, definivano questa esperienza come una “figata”. Certo, è una esperienza unica nel suo genere, molto emozionante ed intensa ed io sono il primo a parlarne positivamente, ma vivere a Concordia non è certo semplice, vista l’ostilità dell’ambiente e le condizioni estreme a cui la mente e l’organismo sono sottoposti. Ho già spiegato cosa succede nelle ore successive all’arrivo, ma quella è una piccolissima parte dello stress a cui si è sottoposti. I parametri ambientali temperatura, pressione ed umidità, strettamente interconnessi tra loro, sono i responsabili dei disagi fisici a cui si va incontro durante la permanenza in questo posto. Nelle prossime righe darò una sommaria descrizione degli effetti di tali parametri, in futuro non mancherà certo occasione di descrivere effetti più particolari. Chissà, magari qualcuno rivedrà il suo pensiero e si renderà conto che vivere a Concordia non è proprio una “figata”.

La temperatura è il parametro che più spaventa. In piena estate (da metà dicembre a metà gennaio), la temperatura massima si aggira intorno a -25°C durante le ore diurne, -35°C nelle ore notturne. In assenza di vento, si riesce a star fuori anche diverse ore, coperti con una maglia termica, una giacca imbottita e una giacca a vento. Giugno è solitamente il mese più freddo, con temperature medie di -70°C (con punte che possono anche arrivare a -90°C), con una escursione termica tra ore diurne e notturne praticamente nulla in quanto il sole è sempre molto sotto l’orizzonte (intorno alle 12 si percepisce solamente un lieve chiarore all’orizzonte in direzione nord). Con tali valori, anche una brezza può cambiare molto la percezione del freddo.  È il cosiddetto “wind chill“, ossia la temperatura percepita a causa della presenza del vento.

Parametri meteorologici a Concordia

 

A volte, durante la stagione invernale, il vento fa precipitare la temperatura percepita anche al di sotto di -100°C. È bene specificare che, contrariamente a quanto molti credono (e tanti altri fanno credere per una sorta di autocelebrazione), la temperatura di “wind chill” è quella che si percepisce sulle parti del corpo non coperte. L’utilizzo di indumenti tecnici protegge dall’effetto del vento e non fa perdere al corpo calore così velocemente, per cui la temperatura percepita in presenza di vento è sicuramente più bassa di quella segnata dal sensore di temperatura, ma non certo uguale a quella di “wind chill”. Durante l’inverno, il vestiario prevede due maglie termiche, una calzamaglia termica, giacca e pantaloni imbottiti (molto spessi). Si somiglia all’omino Michelin e muoversi è davvero difficoltoso. Già ad una temperatura di -60°C, restare fuori più di 20-30 minuti è molto difficile, oltre che pericoloso.  È necessario coprire bene ogni parte del corpo, altrimenti si può incorrere nelle cosiddette “bruciature da freddo”. Particolare attenzione bisogna prestare alle estremità, dita di mani e piedi e naso. Il freddo intenso, dopo un primo momento in cui si ha la sensazione di dolore, causa insensibilità e, se non si corre subito in un posto riscaldato, si rischia la necrosi della parte esposta  . Provate ad immaginare una situazione in cui, in pieno inverno, quando in base rimangono poco più di 10 persone, una persona che si trova all’esterno per lavoro (per esempio per andare a controllare la strumentazione posta nei laboratori esterni, distanti diverse centinaia di metri) venga colta da malore. Se i soccorsi non arrivano nel giro di pochi minuti, si rischia davvero tanto.

Gli effetti della bassa pressione e, quindi, della presenza di meno ossigeno, sono stati già descritti a proposito del “mal di quota”. Ma certo non si esauriscono lì. Sono necessarie diverse settimane affinché l’organismo riesca a compensare la minore quantità di ossigeno catturata attraverso la respirazione. Il numero di globuli rossi aumenta, il sangue diventa più denso ed il cuore, ovviamente, è molto più sollecitato. Ma, nonostante questo lento adeguamento dell’organismo, persino dopo aver trascorso un anno in questo posto, salire una rampa di scale provoca l’affanno. Affanno che aumenta a dismisura quando ci si trova all’esterno con le temperature molto basse (all’interno della base la temperatura si mantiene più o meno costante su 20°C circa). Provate, quindi, ad immaginare una situazione in cui, a causa del vento, l’ingresso di un laboratorio esterno è stato coperto dalla neve. L’unico modo per entrarci è spalare. Una operazione così banale che, in condizioni normali, richiederebbe pochi minuti, in questo ambiente può richiedere anche diverse decine di minuti. È necessario, infatti, fermarsi ogni tanto per riprendere fiato, per far diminuire il battito cardiaco e per riscaldarsi nel caso l’operazione richieda molto tempo. Con queste temperature, inoltre, qualunque oggetto tenuto in mano (in questo caso la pala), sottrae molto calore nonostante l’utilizzo di guanti imbottiti, per cui, quando ci si prende una pausa, bisogna ogni volta riscaldarsi le mani.

La temperatura molto bassa provoca il congelamento delle particelle di acqua presenti nell’aria (già molto poche in quanto l’Antartide è forse la zona più arida del mondo). L’umidità è quindi molto bassa (i valori si aggirano su 5-6% all’interno della base) ed è uno dei parametri che causano i maggiori problemi in maniera costante e che l’organismo non riesce a contrastare con il lento adattamento. La pelle tende a disidratarsi molto velocemente ed a screpolarsi. Le mani e le piante dei piedi sono le zone del corpo che più soffrono e sono affette dalla piaga delle ragadi. Solo l’uso costante di creme idratanti riduce (ma non annulla) gli effetti di questa estrema secchezza. Fa un po’ schifo a descriverlo, ma il naso è costantemente pieno di muchi che in poco tempo, soprattutto di notte, si solidificano e sono’ difficili da espellere in maniera indenne. I capillari tendono a rompersi e ogni volta che ci si soffia il naso escono dei mostri e si perde sangue. È come essere costantemente raffreddati, con ovvie ripercussioni sulla respirazione. E in un ambiente in cui è già presente poco ossigeno…

Durante il periodo invernale (maggio-luglio) il sole    non è mai visibile e l’oscurità regna perenne, per cui l’organismo è affetto da una serie di scompensi (non c’è più produzione di melatonina e vitamina D, per esempio) che possono causare insonnia, diminuzione dell’attenzione (si abbassa la soglia della vigilanza e i pericoli vengono sottovalutati), fino anche alla depressione. Soprattutto durante la stagione invernale, poi, Il tutto è ingigantito dal fatto di vivere in un ambiente totalmente isolato e ristretto, con poche possibilità di alternativa, dove si vedono sempre e solo le  stesse persone. A lungo andare aumenta l’irritabilità ed anche un atteggiamento che in condizioni normali passerebbe inosservato, può essere fonte di discussioni e forti contrasti.

Mi fermo qui, in quanto tutti questi aspetti e molti altri saranno sicuramente approfonditi nel corso dei prossimi mesi con la descrizione delle normali esperienze quotidiane.

MA ALLORA PERCHÉ CONCORDIA?

Bella domanda. Cosa spinge una persona a passare un anno intero in un posto del genere? Le motivazioni possono essere diverse e molto soggettive. Cercherò di spiegare le mie, pur essendo consapevole che non tutti le comprenderanno. Quando l’ho fatto per la prima volta, nel 2011, la motivazione principale era la curiosità di affrontare una esperienza del tutto unica e per me ignota. Cercavo risposte a domande del tipo “Cosa si prova a percepire una temperatura di -80°C?”, oppure “Cosa si prova quando ci si trova in un contesto isolato, condividere tutto sempre con le stesse persone, nella consapevolezza che non c’è modo di uscirne?” e ancora “Cosa si prova in un contesto in cui, anche in caso di grave necessità, non è possibile essere soccorsi dall’esterno?” e molte altre domande come queste. C’è stata quindi una certa dose di incoscienza che mi ha spinto a fare una esperienza del genere la prima volta, unita alla voglia di mettermi alla prova e capire quali fossero i miei limiti di sopportabilità. Certo, ho corso un bel rischio, non avevo mai vissuto una esperienza simile, quindi non potevo sapere come avrei reagito di fronte a determinate circostanze. E se avessi perso il controllo di me stesso? La risposta che mi sono dato è stata “se ciò si verificherà, ci penserò a suo tempo”. Senza questo approccio, la paura di un fallimento prende il sopravvento e ti costringe a rinunciare.

Ma cosa mi spinge, ora, a ripetere l’esperienza? Si potrebbe pensare che la gran parte delle situazioni a cui andrò incontro le conosco, le ho già vissute. Ma, dopo 10 anni, le vivrò allo stesso modo? Non so se qualcuno di voi ha mai provato a rileggere un libro o a guardare un film per la seconda volta a distanza di molti anni. A me è capitato spesso di giudicarlo diversamente, perché io nel frattempo sono cambiato, mi sono arricchito di esperienze e conoscenze che mi permettono di avere un punto di vista differente   rispetto a quello che avevo avuto la prima volta. E in quel caso, il libro (o il film) è sempre lo stesso. Nella esperienza che mi accingo ad affrontare, invece, c’è almeno una variabile, ma si tratta di una variabile fondamentale, che cambia. Si tratta del gruppo di persone con cui si condivide l’esperienza. Gruppo diverso, dinamiche diverse. E quindi si ritorna alla curiosità di affrontare una esperienza che, per tanti versi, pur essendo già stata vissuta, presenta sempre degli aspetti che sono del tutto originali. Potrei anche sbagliarmi, solo il tempo mi darà le risposte. E cercherò di condividerle con tutti voi…

L’INIZIO DELLA STAGIONE ESTIVA

Superata la prima fase di ambientamento e smaltiti gli effetti del “mal di quota”, ho dovuto affrontare l’adeguamento al nuovo orario. Come già scritto   , ho da diversi anni un pessimo rapporto con il sonno, per cui una minima variazione rispetto alle abituali condizioni non mi permette di riposare in maniera adeguata. In più, qui ci sono le condizioni ambientali che di certo non favoriscono una buona qualità del sonno. La minore quantità di ossigeno e l’estrema secchezza dell’aria rendono difficoltosa la respirazione per cui non è sempre semplice trovare un equilibrio che consenta di avere un sonno riposante. Finora, e sono passati ormai 14 giorni da quando sono qui, ho dormito bene solo due volte. Le sto provando tutte, spray per decongestionare le vie respiratorie, unguenti, compresse a base di estratti naturali che, in teoria, dovrebbero favorire il sonno, fino all’utilizzo di un umidificatore che qualche ex invernante ha lasciato qui. Alcune notti va un po’ meglio, altre meno. Il problema deve essere nella mia testa, ci sono troppi “legami” con il mondo esterno, “legami” che non possono essere rescissi perché, anche volendolo fare, sono troppo resistenti. Rappresentano una sorta di varco che è giusto tenere aperto perché la vita vera è quella, questo è quasi un mondo parallelo dove tutto sembra bello e perfetto, ma rischia di catturarti senza che te ne renda conto, come successe a me alla fine della precedente esperienza annuale, quando non volevo più andare via di qui. Devo quindi imparare a tenerli nella giusta considerazione rispetto al contesto in cui mi trovo.

A volte riesco a recuperare un po’ di sonno nel pomeriggio dopo pranzo, ma in genere non è possibile in quanto ci sono degli impegni da soddisfare. Nei giorni scorsi, infatti, ho fatto il passaggio di consegne con l’invernante uscente, che mi ha spiegato nel dettaglio le varie operazioni da condurre in maniera routinaria per gestire i vari progetti scientifici che mi saranno dati in carico per tutto l’anno, di cui vi racconterò. Abbiamo quindi fatto il giro di tutti i laboratori esterni in cui dovrò periodicamente recarmi per fare manutenzione alla strumentazione ivi installata, mi ha spiegato un possibile ventaglio di problematiche che si possono presentare e come eventualmente risolverle.  Tante  informazioni da recepire in un periodo limitato che, ovviamente, hanno bisogno di un po’ di tempo per essere assimilate.

Ed in più ci sono impegni di natura “istituzionale”. Da cose semplici come la compilazione dei report per le attività svolte, ai turni di pulizia (lavaggio delle stoviglie e degli ambienti comuni come mensa e living room), alla costituzione delle squadre antincendio e di primo soccorso esterno. Queste ultime contano elementi solo tra gli invernanti, in quanto a loro sarà lasciata la gestione della base per 9 mesi, da febbraio a novembre. In questo periodo, bisognerà contare solo su un gruppo formato da un numero esiguo di persone (noi saremo in 13), qualunque cosa succeda. Nel corso della stagione estiva, quindi, vengono fatte varie esercitazioni per simulare differenti scenari di incendio o di soccorso.

Nella squadra antincendio, io sarò uno dei 4 vigili del fuoco, ossia quelle figure che affrontano in prima persona, con estintori o idranti, un eventuale incendio. Il fuoco rappresenta uno dei pericoli principali in Antartide, forse il maggiore. Nonostante in questo continente sia presente la maggiore riserva di acqua dolce della Terra, essendo quasi completamente allo stato solido, la disponibilità di acqua liquida è davvero esigua. Ovviamente il problema non è tecnologico, ma economico e logistico.  È molto dispendioso, infatti, convertire l’acqua dallo stato solido al liquido e, soprattutto, conservarla in tale stato in quantità idonea ad affrontare un grosso incendio. E nel caso un evento del genere si verifichi, è davvero improbabile contrastarlo. Se la base dovesse andare distrutta a causa di un incendio, ci sarebbe sempre il “summer camp” dove rifugiarsi, ma tale struttura non è idonea per attraversare i mesi invernali in maniera confortevole. Si tratterebbe, quindi, di sopravvivere. L’unica vera arma a disposizione per contrastare questo pericolo è la prevenzione.

Nella squadra di pronto soccorso, sarò uno dei 4 adibiti al recupero di un eventuale ferito all’esterno della base. Anche questo può essere un compito molto gravoso. Nel caso di incidente in pieno inverno, infatti, se la vittima è lontana dalla base, non potendo usare mezzi per muoversi, i tempi di soccorso possono essere molto lunghi. Correre in un ambiente con temperature così basse e con molto meno ossigeno rispetto a quanto il nostro organismo è abituato può essere fatale, si rischia di trasformarsi da soccorritori in ulteriori vittime. Anche trasportare un peso diventa una operazione molto faticosa. Eppure la priorità è portare la vittima nel più breve tempo possibile in un luogo riscaldato per evitargli l’ipotermia. Ancora una volta, come è facile intuire, l’unica vera arma a disposizione per contrastare questo pericolo è la prevenzione.

I primi 14 giorni sono quindi trascorsi fondamentalmente tra ambientamento, passaggio di consegne, esercitazioni antincendio e di pronto soccorso. Ieri è arrivato un carico di personale scientifico. Sono tutti ricercatori che, durante la campagna estiva montano e configurano la strumentazione necessaria ai nuovi esperimenti o all’aggiornamento di quelli già in corso. Da domani, quindi, comincerà una nuova fase di training e il carico di lavoro aumenterà notevolmente. Sarà così fino alla fine di gennaio.

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