6-IL GRANDE INVERNO

DAL DIARIO DI ANGELO GALEANDRO (4 settembre 2022):
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Associare ad ogni mese un evento particolare aiuta a scandire il tempo che abbiamo davanti. E’ una pratica comune tra gli invernanti cercare ognuno a modo suo delle date particolari nei mesi che trascorrono….  Angelo in questo capitolo ci racconta il suo. E tra il lavoro, gli appuntamenti con le serie televisive e le attività ricreative i mesi trascorrono. E’ settembre, le condizioni climatiche migliorano, il  sole sorge di nuovo e la temperatura aumenta: tutti segnali che indicano che tra poche settimane anche questa avventura è finita. Per Angelo è anche il momento delle riflessioni e dei confronti con l’esperienza passata.

RIASSUNTO DELLE PUNTATE PRECEDENTI

Partito dall’Italia il 16 ottobre 2021, dopo due settimane di permanenza in Nuova Zelanda in isolamento preventivo a causa del COVID, sono ritornato a calpestare il suolo antartico il 2 novembre. Ho rivisto la base Mario Zucchelli Station in cui ero stato l’ultima volta 5 anni prima e, dopo 5 giorni, il 7 novembre sono arrivato a Concordia Station, la base sul plateau antartico in cui avevo trascorso un altro winterover 11 anni fa, nel 2011. Dopo poco più di 3 mesi estivi, trascorsi al fianco dei ricercatori che mi hanno “addestrato” a gestire gli strumenti dei vari progetti che mi sono stati assegnati, il 7 febbraio abbiamo salutato il personale estivo, rimanendo in 13 ad affrontare il lungo periodo di isolamento. Mentre la temperatura cominciava a scendere inesorabilmente, il 18 marzo, un’ondata di calore anomalo ha investito la parte orientale del continente, facendo registrare a Concordia il valore straordinario di -11.8 °C, mai raggiunto nemmeno in piena estate.

MARZO E’ GIA’ FINITO

Così cominciava una sorta di composizione formulata i primi giorni di aprile durante il mio primo inverno a Concordia, nel 2011. Associare ad ogni mese un evento particolare era un modo per scandire il tempo che avevamo davanti. È una pratica piuttosto comune tra gli invernanti, ognuno ha il suo modo di cercare delle date particolari nei mesi a venire. Raggiungerle e rendersi conto di come velocemente il tempo sia passato, aiuta psicologicamente ad affrontare i giorni, le settimane, i mesi successivi, con le restrizioni e i limiti caratteristici della vita in una base remota in Antartide. Di come era trascorso marzo avevo già parlato la volta scorsa, per cui nei prossimi paragrafi scriverò di come sono trascorsi i mesi centrali dell’inverno antartico, rievocando la composizione formulata nel 2011, ancora del tutto attuale.

APRILE: DURA QUEL CHE DURA

Nessun evento importante caratterizza questo mese. Quest’anno, come nel 2011, c’è stata la domenica di Pasqua, ma come già scritto per il Natale, qui le feste di origine religiosa, con tutta l’atmosfera che viene commercialmente costruita attorno ad esse, non viene quasi per nulla percepita. È stata quindi una domenica come tante altre, con l’unica differenza di un pranzo più curato, ma nemmeno più di tanto. D’altra parte, aprile è un mese che cade nel primo periodo del winterover, si è ancora nella fase di rilassamento post stagione estiva, e lo si vive con la curiosità di affrontare i mesi successivi, in cui ci saranno eventi più particolari. Da qui l’espressione “dura quel che dura”.

Come a marzo, anche ad aprile, durante la giornata, si alternano ore di luce ad ore di oscurità. Passata la prima metà del mese, le ore di luce diminuiscono molto velocemente e la temperatura si assesta su un valore medio compreso tra -60°C e -70°C. Sempre con valori più bassi a partire dalla fine di gennaio (a parte l’evento anomalo accaduto attorno alla metà di febbraio), la temperatura ha superato per la prima volta -75°C, toccando quasi -80°C, proprio la notte della domenica di Pasqua. I giorni a ridosso sono stati tra i più freddi dell’intero inverno, con temperatura sempre inferiore a -70°C e vento di almeno 4 m/s, valori che hanno fatto precipitare la temperatura percepita (wind chill) diverse volte sotto -100°C.

Condizioni di questo tipo sono abbastanza rare fortunatamente, perché si comincia ad avvertire il freddo anche in base. La dispersione del calore interno è molto elevata e, in alcuni ambienti non si riesce più a garantire una temperatura adeguata (a causa della presenza di strumentazione o macchinari il cui buon funzionamento è legato alla temperatura), come è effettivamente successo durante quel periodo. Gli allarmi scattavano in continuazione e il personale tecnico si adoperava perché in alcuni locali ritornassero temperature accettabili.

A partire dalla seconda metà di marzo, nonostante fossimo ancora nel periodo iniziale del winterover, per scandire il passare del tempo, alcuni di noi hanno cominciato a dedicare la domenica alla visione di alcune saghe cinematografiche. La prima è stata The Lord of the Rings, la trilogia di genere fantasy diretta da Peter Jackson e tratta dai romanzi di J. R. R. Tolkien. Dopo un paio di domeniche di pausa, abbiamo proseguito con il prequel The Hobbit. Finito quest’ultimo, senza quasi essercene resi conto, eravamo arrivati ormai alla metà di maggio.

MAGGIO: L’ULTIMO TRAMONTO

L’evento principale di questo mese è l’ultimo tramonto. Il primo, avvenuto il 12 febbraio, era stato accolto con entusiasmo perché con esso ricominciava il ciclo diurno/notturno così come siamo da sempre abituati, che sarebbe durato per circa 3 mesi. Pian piano, le ore di oscurità hanno preso il sopravvento, finché il 3 maggio abbiamo visto il sole per l’ultima volta. Le date di alba e tramonto, in realtà, sono convenzionali. A causa dell’effetto della rifrazione atmosferica è piuttosto difficile stabilire con precisione quando il sole appare o scompare rispetto all’orizzonte per la prima volta. Fonti diverse parlano di orari o addirittura di date diverse, anche se molto vicine tra loro. La cosa ha una importanza relativa rispetto all’evento stesso, per cui, di comune accordo abbiamo stabilito una data per “celebrare” in qualche maniera l’evento.

L’ultimo tramonto – 12 febbraio 2022 (foto di Julien Witwicky)

L’evento è stato accolto con curiosità da chi era qui per la prima volta. Si andava incontro ad un periodo in cui non avremmo visto il sole per 24 ore su 24, 7 giorni su 7, per circa 100 giorni, una situazione presente solo ed esclusivamente nelle regioni polari. Io che l’avevo già vissuta 11 anni fa, l’ho accolta con un po’ di ansia. Durante il mio primo inverno a Concordia, quello a venire era stato il periodo più stressante dal punto di vista fisiologico a causa del fatto che avevo praticamente smesso di dormire. Riuscivo ad assopirmi per circa 1-2 ore al giorno e, una volta sveglio, nonostante il sonno e la stanchezza, non riuscivo più a riaddormentarmi. Tutto ciò era durato per circa 7 settimane e, il solo pensiero di ripetere questa esperienza, dopo aver trascorso la stagione estiva quasi allo stesso modo, mi spaventava non poco.

Nell’attesa di scoprire cosa sarebbe successo nei mesi a venire, l’appuntamento con le saghe cinematografiche della domenica continuava. Il 29, l’ultima domenica di maggio, abbiamo dato inizio alla saga di Star Wars, 11 film (9 della serie principale più due spin-off) che, settimana dopo settimana, ci avrebbero accompagnato sino a metà agosto, quando il sole sarebbe finalmente riapparso. La data di inizio non era stata scelta a caso, visto che il 25 maggio si celebra ogni anno lo Star Wars Day, il giorno in cui ricorre la data ufficiale di uscita al cinema del primo film della serie. Quella sera, però, io e Max, lo station leader, eravamo impegnati in una video chiamata per la registrazione di una puntata del programma RAI Newton, in cui si parlava dei cambiamenti climatici in atto. In quella occasione ho riportato la mia testimonianza sull’evento di riscaldamento anomalo avvenuto a marzo, di cui ho già scritto.

La visione del primo film della saga Star Wars, tra l’altro, ha dato origine ad una piccola diatriba tra 2 gruppi di persone, che solo chi conosce l’universo di Star Wars potrà ben comprendere. Da un lato io ed Hannes, il medico ricercatore dell’ESA, che volevamo vedere i film nell’ordine cronologico in cui sono stati rilasciati (e quindi partire con l’Episodio IV). Tutti gli altri, invece, ritenevano più logico guardare i film nell’ordine cronologico degli eventi raccontati, ossia cominciare con l’Episodio I. Questa divergenza di opinioni avrebbe successivamente dato spunto alla trama di uno dei due film con cui, qualche mese più tardi, avremmo partecipato al WIFFA (Winter International Film Festival of Antarctica).

A partire dalla prima settimana di maggio, inoltre, abbiamo deciso di dedicare il martedì alla visione dei film del Marvel Cinematic Universe, una serie di ben 22 appuntamenti settimanali che ci avrebbe portato fin quasi alla fine della stagione invernale.

Dal punto di vista meteorologico, maggio è stato un mese caratterizzato dalle continue forti escursioni termiche, diverse volte la temperatura è passata da valori sotto -65°C a valori superiori a -45°C. Anche qui ci sono periodi in cui non si capisce bene come ci si dovrà vestire al mattino…

GIUGNO: ARRIVA IL MIDWINTER

Come noto, nell’emisfero australe le stagioni sono invertite rispetto a quello boreale. E così, il 21 giugno (o il 20 in alcuni anni), giorno del solstizio d’estate nell’emisfero boreale, diventa il solstizio di inverno in quello australe. Tale data coincide più o meno con la metà del periodo invernale, intendendo per inverno il periodo di completo isolamento tra due stagioni estive, quando le basi antartiche aprono al personale presente solo per i 3-4 mesi in cui le condizioni climatiche rendono possibili i collegamenti con il resto del mondo.

Il 21 giugno, in Antartide, è quindi il giorno più corto dell’anno, nel senso che le ore di luce sono inferiori a qualunque altro giorno. Parlare di ore di luce, ovviamente, suona un po’ strano, visto che il sole è ormai scomparso da oltre un mese e mezzo, per cui c’è solo un lieve bagliore che dura circa 2-3 ore e la cui intensità e massima intorno a mezzogiorno. La luminosità, seppur molto bassa, è comunque sufficiente a distinguere le sagome dei laboratori esterni, a distanza di circa 600 m. Il fatto che il suolo sia completamente bianco e l’assenza di ombre, tuttavia, rendono abbastanza disagevole camminare senza una lampada. Il suolo è una successione di dossi e avvallamenti, creati dall’azione del vento, che, anche se lievi, possono costituire un ostacolo per cui è molto facile cadere (come mi è successo un paio di volte).

A proposito della luminosità devo dire che, rispetto al mio primo inverno in Antartide, sono rimasto piuttosto sorpreso dalla quantità di luce presente. Non ne ricordavo così tanta e la stessa sensazione l’hanno avuta anche gli altri 3 colleghi che avevano già fatto un inverno qui. Ho persino pensato che ci fosse stato qualche cambiamento a livello astronomico (differente geometria degli astri), ma Thomas, l’astronomo, mi ha detto che nulla era cambiato rispetto ad 11 anni fa. Evidentemente è stato uno scherzo della memoria…

Luminosità visibile il 21 giugno (foto di Angelo Galeandro)

Comunque sia, il 21 giugno è una data simbolica perché, da quel giorno in poi le ore e l’intensità della luce non possono che crescere. Si è arrivati a metà del percorso, al giro di boa, MidWinter appunto, per cui è giusto festeggiare. Ogni base si organizza a modo suo e tra le varie basi ci si scambia gli auguri (come e più di Natale). Noi abbiamo festeggiato con 5 serate a tema (montagna, disco ’80, preistoria, vichinghi e caraibi), a partire da venerdì 17 giugno. Probabilmente presi dalla voglia di festeggiare una qualsiasi cosa, abbiamo forse un po’ esagerato la prima sera, arrivando scarichi nelle 2 serate successive, per poi ritornare “in forze” nella quarta serata.

MidWinter è coinciso anche con la fine di un periodo piuttosto “caldo” relativamente al periodo dell’anno, mediamente quello con le temperature più basse. Fino ad allora, giugno era stato caratterizzato da temperature sempre più alte di -65°C, successivamente, per circa 2 settimane, la temperatura è rimasta sempre al di sotto di tale valore. È stato un periodo piuttosto stressante dal punto di vista fisico, infatti la pressione è scesa a valori inferiori a 635 hPa per circa 20 giorni consecutivi e ciò significa ancora meno ossigeno (rispetto al già poco a cui siamo abituati) e quindi maggiore sforzo a fare qualunque cosa.

LUGLIO: E’ IL COMPLEANNO DI ANGELO

Come aprile, anche luglio è un mese in cui non ricorrono eventi particolari. E quindi, nella composizione formulata 11 anni fa, poiché ci eravamo già giocati il “dura quel che dura”, abbiamo deciso di dedicare questo mese al mio compleanno. Anche quest’anno ero l’unico a festeggiare il compleanno a luglio, per cui abbiamo deciso ancora una volta di farne un evento. E così, il 17 luglio ho festeggiato il mio 47° compleanno, il secondo a Concordia, dopo il 36°. Il cuoco si è sbizzarrito in cucina, preparando una cena anche più sofisticata di quella preparata la domenica di Pasqua. Come antipasti, julienne di seppie e seppioline fritte su letto di salsa di fragole, seguite da tonno alla piastra; per primo, spaghetti alle cozze, mantecati con salsa al formaggio caprino e aneto; per secondo: gamberoni al forno con olio limone prezzemolo e aglio; infine, per dessert, torta millefoglie.

Ricordo in modo particolare il giorno del mio compleanno di 11 anni fa. La notte, mentre improvvisavamo una partita di poker nel workshop, situato al primo piano dell’edificio “rumoroso”, cominciammo a sentire rumore di acqua che scendeva a rivoli dal soffitto. Qualcuno aveva dimenticato (?) aperto il rubinetto di un lavandino del terzo piano il cui tubo di scarico era evidentemente occluso perché l’intero edificio si era allagato. Passammo l’intera notte a raccogliere l’acqua. Anche quest’anno il 17 luglio lo ricorderò per un evento “nefasto”, le cui conseguenze mi avrebbero accompagnato nei successivi trenta giorni e di cui racconterò in seguito.

Durante l’inverno del 2011, il giorno del mio compleanno chiuse anche il periodo di circa 7 settimane in cui avevo fortemente sofferto di insonnia. Dal giorno successivo, pian piano, tornai a dormire sempre di più, normalizzandomi nel giro di una settimana. Quest’anno, fortunatamente, quel periodo, tanto temuto a maggio, non c’è stato. Il mio sonno è stato piuttosto regolare e questo ha contribuito a rendere più sopportabile la situazione di stress a cui già normalmente si è sottoposti a causa dell’assenza del sole.

Durante la seconda metà del mese di luglio si comincia a percepire maggiormente il ritorno della luce. Man mano che il sole si alza, pur rimanendo sempre nascosto sotto l’orizzonte, le prime ore del mattino si tingono di tinte molto intense, che vanno dal giallo al rosso al porpora. E se c’è un periodo caratterizzato da nuvolosità, non appena il cielo torna limpido ci si sorprende per la quantità di luce in più. Nonostante le temperature siano ancora molto basse (giugno e luglio sono mediamente i mesi più freddi dell’anno), i contorni del paesaggio si fanno sempre più definiti, le distanze sembrano accorciarsi ed uscire all’esterno diventa psicologicamente più semplice.

Colori del cielo nelle prime ore del mattino (in alto foto di Fabien Farge, in basso foto di Julien Witwicky)

Per scandire ancora meglio il tempo, oltre agli appuntamenti con le saghe della domenica e del martedì, a partire dal 28 luglio abbiamo concordato il giovedì come un ulteriore giorno dedicato a saghe più brevi, come Indiana Jones e Jason Bourne.

Come era successo a maggio, anche a luglio la temperatura è stata piuttosto ballerina, passando più volte da valori inferiori a -70°C a valori superiori a -45°C. L’ultima settimana, invece, è stato il periodo più “caldo” dell’intero inverno, con continue escursioni della temperatura compresa tra -47° e -63°C.

AGOSTO: IL PRIMO SOLE

Le ore di luce continuano ad aumentare e, proprio come accade in primavera, sembra di rinascere dopo un periodo di letargo dei sensi. L’appuntamento tanto atteso con la data del 10-11 agosto si avvicina sempre di più e non credo di esagerare se dico che questo è l’evento più atteso dell’intero inverno, ossia il ritorno del sole.

Il 7 agosto ero uscito per andare in un laboratorio esterno per fare alcune riparazioni ad uno strumento che non funzionava. Erano le 10 circa, c’era tanta luce. Finito il lavoro mi sono incamminato verso la base. Erano le 11.30 circa, il vento era praticamente assente, tanto da sentire solamente lo scricchiolio del ghiaccio calpestato dai miei piedi. La luce era molto aumentata, ho alzato lo sguardo e, per la prima volta, dopo quasi 100 giorni, ho intravisto le fiamme del sole che incendiavano l’orizzonte. Era solo l’effetto della rifrazione atmosferica, ne ero consapevole. Ma nonostante ciò, mi sono fermato, c’era il silenzio più assoluto, il mio corpo quasi vacillava e sentivo l’equilibrio venire meno. Sono stato percorso da una serie ripetuta di piccoli brividi, tanta era l’emozione provata, la mente ripercorreva velocemente la fatica provata nell’attraversare un periodo così lungo immerso nell’oscurità.

I primi raggi del sole (foto di Angelo Galeandro)

Il 10 agosto il sole ha superato finalmente la linea dell’orizzonte, ma il giorno successivo il cielo era coperto. E’ rimasto così per 5 giorni, la presenza dell’astro si percepiva sempre più alta dietro la coltre di nubi che ne impediva la piena visibilità. Finalmente il 16 agosto il cielo è tornato terso e siamo stati “investiti” da un’elevata luminosità in maniera improvvisa. Ormai il sole era abbastanza alto da proiettare le prime ombre, lunghissime, sul suolo ghiacciato. Nonostante la temperatura molto bassa, inferiore a -70°C, sono uscito solo per vedere la mia ombra che si allungava per diversi metri sull’immenso tappeto bianco.

La prima lunga ombra (foto di Angelo Galeandro)

Ed in quel momento ho pensato che la cosa più bella che poi rimane nel vivere questa esperienza, con tutte le privazioni e le mancanze che essa comporta, è Il fatto che tanti problemi che ci sembrano affliggere la nostra esistenza, perdono gran parte della loro consistenza. Se siamo capaci di sorprenderci, di emozionarci per cose che, ogni giorno, ci sembrano così banali, così normali, come un’alba, la vista della nostra ombra… Allora forse dovremmo più concentraci sul fatto di esserci, senza dare più molto peso ad una miriade di cose che vanno poi a minare il nostro pensiero distogliendo la mente.

Questo pensiero, largamente condiviso, sembra però perdere la sua validità nella vita di tutti i giorni nel mondo “normale”. La frenesia, lo stress che lo caratterizzano e di cui spesso non ci rendiamo nemmeno conto, hanno di fatto minato la nostra sensibilità e la capacità di godere di cose apparentemente molto semplici.

Primi tramonti ad agosto (foto di Fabien Farge)

Altro appuntamento di agosto è il WIFFA (Winter International Film Festival of Antarctica), una manifestazione a cui partecipano le basi antartiche e basata sulla realizzazione di film amatoriali (prevalentemente cortometraggi di 5-10 minuti). Le categorie ammesse sono due: una chiamata “Open”, un film dalla trama scelta liberamente, l’altra chiamata “48h” perché la trama deve rispettare alcuni vincoli, in particolare la presenza di cinque elementi (un oggetto, una citazione, un suono, un personaggio ed un’azione), che vengono comunicati esattamente 48 ore prima della consegna del prodotto. Questo è quindi il tempo a disposizione per pensare ad una trama, realizzare le riprese ed il montaggio e, infine, inviare il film sul server predisposto.

Il gruppo ha approvato le mie idee sia per la categoria “Open”, la cui trama ha tratto ispirazione dalla disputa che c’era stata a maggio sul film da vedere per cominciare la saga di Star Wars, sia per la categoria “48h”, in cui bisognava rispettare la presenza dei seguenti elementi: un martello, la citazione “Things we lose have a way of coming back to us in the end, if not always in the way we expect“, tratta da un film della saga Harry Potter, il suono che fa il latte quando viene schiumato, il personaggio della serie di libri “Where is Wally?” e, come azione, un secchio pieno di acqua gettata addosso ad una persona.

La settimana passata per girare e montare i due film è stata probabilmente la più divertente dell’intero inverno. C’è stata un’ampia partecipazione da parte di tutti, con me regista, Thomas alle riprese e tutti gli altri a recitare le loro parti da protagonisti o semplici comparse. Alla fine sono usciti due prodotti dignitosi, anche ben confezionati, che, indipendentemente dall’esito del festival, saranno per tutti noi un gran bel ricordo del tempo trascorso assieme in questo luogo desolato, remoto, ma nello stesso tempo molto affascinante.

Dal punto di vista meteorologico, anche a luglio la temperatura ha avuto diversi sbalzi. Si è continuamente passati da periodi “caldi” a periodi molto freddi e, in due occasioni, si è quasi arrivati a -80°C. Nell’ultima decade, infine, la pressione atmosferica è stata sempre al di sotto di 630 hPa, il che ha reso particolarmente sfiancante qualunque operazione che richiedesse movimento e sforzo.

UN INVERNO LUNGO

A prescindere dalla percezione che si ha della sua durata, l’inverno sul plateau antartico, inteso come periodo tra due stagioni estive (ossia tra i primi giorni di febbraio e i primi giorni di novembre), è un lasso temporale molto lungo. Nel seguito descriverò brevemente le peculiarità che riguardano l’intero periodo e non un mese in particolare, dagli effetti di parametri climatici come temperatura e pressione alle ricadute psicofisiche dell’assenza di sole.

IL GRANDE FREDDO

Già a partire da valori inferiori a -55°C i tessuti delle tute con cui ci copriamo cominciano ad irrigidirsi. Quando la temperatura supera -65°C si ha l’impressione di avere addosso del cartone. Quando ci si muove, la tuta produce un suono molto simile a quello che si ha quando si accartoccia un pezzo di carta. Ovviamente questo effetto è tanto più amplificato quanto più bassa è la temperatura. Quando si scende sotto -70°C, anche gli stivali e le moffole cominciano a “soffrire” non trattenendo più abbastanza il calore e il tempo di permanenza all’esterno, senza che anche noi si soffra in modo particolare, si riduce notevolmente. Piedi e mani si raffreddano molto velocemente e l’effetto si moltiplica di svariate volte quando si entra in contatto con un oggetto come una pala (per spalare la neve che impedisce l’ingresso in alcuni laboratori esterni) o un semplice pennello (con cui si puliscono i sensori dal ghiaccio che solitamente li ricopre), che si riesce ad adoperare solo per poche decine di secondi, prima di cominciare a provare il dolore dovuto alla veloce perdita di calore della mano.

Abbiamo in dotazione dei guanti dotati di resistenze scaldanti che funzionano a batteria, ma  quando la temperatura scende sotto i -40°C  non sono sufficienti. A basse temperature funzionano meglio gli “scaldini”, delle bustine contenenti una sostanza che a contatto con l’aria produce calore per circa 10-12 ore. Le mettiamo all’interno delle moffole o negli stivali ed aiutano a tener caldi mani e piedi.

A parte gli indumenti, quindi, non abbiamo difese ulteriori contro il freddo. E spesso mi è capitato di fare manutenzione a strumenti isolati e lontani da posti scaldati (come, per esempio, la stazione meteorologica) e di congelarmi mani e piedi. E camminare con i piedi congelati significa provare un intenso dolore ad ogni passo.

Uno degli effetti più diretti delle bassissime temperature di questo posto è l’estrema secchezza dell’aria. La gran parte delle particelle di acqua presenti nell’atmosfera si congela, per cui i tassi di umidità relativa sono di molto inferiori a quelli a cui solitamente siamo abituati. Per fare un paragone comprensibile, all’interno della base, dove la temperatura è di circa 20 °C, l’umidità relativa è pari al 4-8% (a seconda degli ambienti), quando nei luoghi in cui siamo abituati a vivere sin dalla nascita, è quasi sempre maggiore del 50%. Ciò crea numerosi problemi alle vie respiratorie ed alla pelle che si screpola e si lesiona molto più facilmente. Spesso mi capita, la notte, di svegliarmi con una sensazione di soffocamento, la gola è talmente secca da non riuscire nemmeno ad ingoiare. E’ uno dei disturbi più diffusi, che non permette di avere un sonno del tutto riposante (a me capita più svolte di svegliarmi anche 5-6 volte durante la notte solo per bere). Alla bassissima umidità il nostro corpo un po’ si abitua, rispetto ai primi mesi adesso va molto meglio. Ed un ambiente così secco ha anche i suoi lati positivi, in quanto scompaiono o si alleviano di molto tutti i doloretti muscolari ed ossei causati dall’umidità (e soprattutto dall’età).

IN DEBITO DI OSSIGENO

Come ho già avuto modo di spiegare, la temperatura non è l’unico parametro ambientale che crea così tanti disagi e, comunque, ad essa bisogna prestare molta attenzione nel momento in cui ci si trova all’esterno. Un parametro contro cui non ci si può difendere è la pressione atmosferica. Ai poli l’atmosfera è più sottile, ne consegue che, facendo un paragone con le latitudini del Mediterraneo, a parità di quota la pressione è più bassa. L’effetto di tutto ciò fa sì che, pur essendo Concordia situata ad una altitudine di circa 3200 m, la pressione tipica del luogo è quella che nell’Europa meridionale si trova a circa 3700 m di quota.

Il valore della pressione varia durante l’anno. Il valore medio della stagione estiva è circa 645 hPa, che corrisponde ad una quota equivalente di circa 3600 m. Durante l’inverno la pressione scende ad un valore medio di circa 635 hPa, corrispondente ad una quota equivalente di 3800 m. Come la temperatura, anche la pressione ha un andamento molto altalenante. In alcuni periodi si raggiungono anche valori di 620 hPa, tipici di una quota equivalente di circa 4000 m. Poiché la pressione è direttamente correlata alla quantità di ossigeno presente nell’aria, si intuisce bene come in questi periodi il senso di spossatezza aumenti e fare qualunque attività fisica diventa più faticoso.

IL GRANDE BUIO

Al pari della temperatura che raggiunge valori bassi come in nessun altra parte del mondo, anche il fatto di vivere un lungo periodo (poco più di 3 mesi) senza mai vedere il sole incuriosisce tantissimo. Per circa la metà dei giorni di questo periodo, ossia dai primi di giugno sino alla metà di luglio, la quantità di luce è davvero esigua e solo per 2-3 ore al giorno. E’ il periodo più “tosto” dell’intero inverno, in quanto l’assenza di luce influisce in maniera negativa sull’umore, ma può avere anche ripercussioni di carattere fisiologico.

Una scintillante aurora (foto di Julien Witwicky)

 

La stazione Concordia con l’alone lunare (foto di Fabien Farge)

Come già raccontato più volte, nel mio primo inverno l’effetto più devastante era stato l’insonnia. Quest’anno, invece, fortunatamente non ho avuto questo problema (almeno durante l’inverno). Ma dal punto di vista psicologico ho avvertito la pesantezza del periodo. Spesso l’umore è cupo, la creatività e la voglia di fare in generale viene meno. Si esce contro voglia e all’esterno le distanze sembrano maggiori. Se si unisce tutto ciò alla mancanza di stimoli ed alla vita routinaria di questo posto, si ha un quadro abbastanza esplicativo. Persino leggere un libro diventa faticoso e ho dovuto attendere il ritorno della luce per cominciare a scrivere la presente. Ovviamente lo stress dovuto all’oscurità perenne influisce in maniera diversa da soggetto a soggetto, ma in generale tutti lo subiscono.

A parte i giorni in cui si è festeggiato il MidWinter, è stato il periodo meno “vivace” per l’intero gruppo. Ci sono stati alcuni periodi in cui si avvertiva una subdola tensione, come se qualcosa dovesse esplodere da un momento all’altro. La convivenza “forzata”, il fatto di non poter evadere, di vivere sempre negli stessi ambienti, di vedere ogni giorno, per l’intero giorno, le stesse persone, risulta in qualche maniera opprimente. Vengono notati maggiormente atteggiamenti ed abitudini che collidono con quelle personali ed anche un gesto banale può diventare fonte di discussione. E se si pensa che quel periodo coincide con l’estate boreale, il senso di oppressione aumenta.

Ma il gruppo ha retto. A parte qualche infelice e poco opportuna “uscita”, tutti sono stati in grado di assumere un atteggiamento maturo e lasciare che comportamenti a volte antipatici scivolassero addosso senza avere reazioni particolari. Anche le differenze culturali tra italiani e francesi, che molte volte in passato avevano rappresentato una sorta di barriera, sono state messe da parte.

Con il ritorno della luce, poi, l’umore è salito alle stelle. Si è ritornati a passare più tempo assieme e, in generale, l’atmosfera è tornata quella tipica di un ambiente in cui ci sono limitazioni e restrizioni dovuti alla convivenza e che sperimentiamo nella normale vita di tutti i giorni.

ASPETTI LAVORATIVI

Se la convivenza di gruppo è funzionata bene, invece parte della strumentazione ha dato diversi problemi. Io sono il responsabile della gestione degli strumenti posti all’esterno e sono dovuto intervenire diverse volte. Ad esempio a inizio marzo, non appena la temperatura è cominciata a scendere sotto -50 °C, si è formata la condensa sulla lastra di vetro che è posta sopra il box del cielometro (in parole molto semplici, uno strumento che serve a misurare la quota e lo spessore di nubi), occludendo del tutto la visibilità allo strumento. Ho provato varie soluzioni, ma nessuna di essa ha risolto il problema. Lo strumento continua comunque a funzionare, quando la temperatura esterna sale molto velocemente, la condensa scompare e le misure riprendono regolarmente. Quindi i dati vengono registrati ad intervalli.

Ad aprile sono dovuto intervenire sulle pompe del DMPS (uno strumento che misura le dimensioni delle particelle di varia natura presenti nell’atmosfera). e sono riuscito a mantenerne in funzione due delle quattro presenti.

Ad inizio maggio Ice-Camera (uno strumento che classifica cristalli di ghiaccio) ha smesso di funzionare. Per risolvere il problema ho dovuto smontare il box posto sul tetto del laboratorio di Fisica, portarlo all’interno e fare le regolazioni a mano. Un lavoro per nulla banale

A fine maggio si è bruciato l’alimentatore che dava corrente ai radiometri (sensori che misurano la quantità di luce) posti sul tetto di un laboratorio. ae con esso si è fermato anche l’impianto diriscaldamento del locale dove è ubicato, con tutte le conseguenze del caso (cavi rigidissimi, necessità di riscaldare il box prima di ridare corrente con il nuovo alimentatore, ecc.). L’operazione di sostituzione dell’alimentatore, che avrebbe richiesto forse 10 minuti in un ambiente normale, ha richiesto circa 2 ore e mezzo. Questo perché bisognava porre particolare attenzione ai cavi che, essendo molto rigidi, rischiavano di rompersi. Inoltre, dovendo operare senza moffole, dopo pochi secondi era necessario tornare all’interno del laboratorio e restarci 10-15 minuti per riscaldarsi.

A metà luglio (la notte prima del mio compleanno), in seguito ad una tempesta di vento, che ha superato 50 km/h e proveniva stranamente da sud (normalmente venti di questa intensità provengono dai quadranti settentrionali) lo stesso box in cui si era bruciato l’alimentatore, si è riempito di neve (non c’è da sorprendersi visto che qui, a causa della bassissima umidità, la neve è molto simile alla polvere).  Conseguenza: è saltato l’interruttore generale, spegnendo anche il riscaldamento. Ovviamente questa cosa è successa intorno alla mezzanotte e io me ne sono accorto il giorno dopo, quando ormai la temperatura all’interno del laboratorio era arrivata a circa -60°C. Per risolvere il problema ho dovuto rimuovere il box dal tetto, portarlo all’interno del laboratorio, pulirlo dalla neve e rimontare il tutto. Tenendo conto del fatto che per operare all’esterno ho dovuto attendere giorni con temperature meno rigide e poco vento, per fare tutte queste operazioni ho impiegato circa 1 mese.

A fine agosto l’LPM (uno strumento che monitora le precipitazioni nevose) ha smesso di trasmettere dati. Lo strumento è montato a circa 2 m di altezza su un traliccio vicino la stazione meteorologica, in una zona in cui il posto riscaldato più vicino si trova a circa 400 m. Mi toccherà smontarlo per fare alcuni test in laboratorio, ma per farlo dovrò attendere un giorno con temperatura non troppo rigida e con poco vento.

Sempre a fine agosto, il box in cui si era prima bruciato l’alimentatore e che poi si è riempito di neve è stato di nuovo protagonista. Non arrivano più dati dai dispositivi al suo interno e non appena possibile indagherò sulle cause.

Come si capisce, non è stato un anno “tranquillo” dal punto di vista lavorativo. Le condizioni climatiche rendono molto complicate le operazioni di manutenzione straordinaria all’esterno, il che si traduce in tempi spesso molto lunghi per la risoluzione dei problemi occorsi. Se poi si aggiungono le condizioni in cui, a volte, si è costretti ad operare, si capisce bene quanto difficile sia a volte effettuare un lavoro già di per sé duro. È il caso della Torre Americana. Assieme a Julien, il glaciologo francese, ci rechiamo una volta a settimana (a meno che le condizioni climatiche siano particolarmente proibitive) in questo sito distante circa 1 km dalla base. Il laboratorio posto ai piedi del traliccio alto circa 42 m, col tempo è stato completamente sommerso dal ghiaccio, tanto che è stato necessario aprire una botola sul tetto per entrare ed uscire in maniera più semplice. Con il vento, però, anche il tetto viene coperto costantemente di neve, per cui, arrivati sul posto, bisogna puntualmente spalare circa mezzo metro di neve per riuscire ad accedere all’interno del laboratorio. Questa operazione, apparentemente semplice, viene estremamente complicata da fattori quali la bassa temperatura (dopo aver percorso un chilometro a piedi in circa 15-20 minuti, il corpo e, soprattutto mani e piedi, si sono raffreddati, inoltre tenere una pala contribuisce a sottrarre ulteriore calore alle mani) e la minore quantità di ossigeno (alla stanchezza accumulata per arrivare sul posto, si aggiunge l’esercizio fisico per spalare la neve). Anche se ci si reca sempre in coppia, entrare attraverso una botola, con il ghiaccio che rende scivolosa ogni superficie, è una operazione notevolmente pericolosa e la notevole distanza dalla base unita all’impossibilità di usare mezzi a causa della temperatura eccessivamente bassa, rende notevolmente lunghi i tempi del soccorso in caso di un eventuale incidente.

Laboratorio sotto il livello del ghiaccio (foto di Julien Witwicky)

Fortunatamente, i responsabili dei vari progetti scientifici che mi sono stati affidati sono tutte persone molto comprensive. Ma  a volte possono arrivare richieste difficilmente o addirittura non esaudibili , in quanto non immaginano cosa significa operare all’esterno durante la stagione invernale.

LE USCITE NOTTURNE

Per rompere la monotonia delle giornate, il più delle volte uguali e senza avvenimenti particolari (a parte i problemi lavorativi che, come visto, sono stati una “variabile costante”), a volte ci si inventa cose molto molto particolari e, per certi versi sorprendenti, quando viste dall’esterno. E’ stato così che una sera di maggio, dopo aver passato la serata assieme agli altri a chiacchierare e ascoltare musica, stavo recandomi in stanza da letto. Passando di fronte l’uscita principale, incuriosito dalla temperatura di -53 °C, abbastanza “alta” per il periodo, ed il vento quasi del tutto assente, mi sono affacciato all’esterno per capire quale percezione avessi del freddo.

E’ stato un attimo e la mia mente ha concepito il malefico piano di sperimentare direttamente sulla pelle scoperta quella temperatura. Sono ritornato su ad “arruolare” i pochi rimasti in piedi (tutti alla loro prima esperienza in Antartide) che, molto titubanti, mi hanno seguito di fronte l’uscita principale. Guardandomi perplessi mentre mi toglievo la maglia accingendomi ad uscire, mi hanno poi seguito all’esterno. Era una serata particolarmente “calda”, il vento stava cambiando e la temperatura era in salita. Era possibile stare all’esterno a torso nudo senza avvertire, almeno per qualche minuto, alcuna sensazione di freddo. La spiegazione è molto semplice. La quasi totale assenza di vento e la bassissima umidità cambiano notevolmente la percezione del freddo, per cui questo tipo di “esperienze” sono possibili senza rischi particolari.

Da quel momento abbiamo deciso di trasformare quell’episodio in una serie di appuntamenti per i mesi successivi. Quando le condizioni lo avessero permesso, saremmo usciti a temperature sempre più basse. E così è stato. Abbiamo sperimentato a torso nudo temperature di -61 °C, -70.5 °C, fino ad arrivare a -77.8 °C. Ovviamente con la temperatura più bassa si riduceva il tempo di permanenza all’esterno.

Questi gesti, che possono sembrare avventati e pericolosi, sono stati in realtà fatti con cognizione di causa. Man mano che ci si addentra nel periodo invernale, anche se il corpo non si adatta al freddo intenso, mentalmente ci si abitua a stare all’esterno con temperature sempre più basse. Questo, unito alle condizioni particolari di assenza di vento e bassa umidità, aiutano psicologicamente e fisicamente ad affrontare temperature che sembrano “impossibili” a chi non le ha mai “conosciute”. E il fatto di rimanere all’esterno un tempo massimo di poche decine di secondi, non ha alcun effetto dannoso sulla salute.

RIFLESSIONI E CONFRONTI

Nonostante non sia ancora finita, questa esperienza è stata notevolmente diversa dalla prima. La differenza, come mi aspettavo e avevo scritto tempo fa, l’ha fatta soprattutto il gruppo. Le dinamiche sono state completamente differenti. Mentre nel 2011 si erano formati essenzialmente due sottogruppi, gli italiani da una parte, i francesi dall’altra, quest’anno ciò non è successo o comunque non è stato così evidente. E’ ovvio che, anche per questioni legate alle abitudini ed alla lingua, ognuno tende a passare più tempo con i propri connazionali, ma spesso ci si è mescolati passando le serate assieme o comunque costituendo gruppi di poche persone sempre diverse. Ciò ha giovato anche al medico ricercatore dell’ESA, Hannes, di origine Finlandese, che però vive ormai da 15 anni a Londra e con cui condivido la passione per il cinema. Si è integrato molto bene con tutti e la lingua non è stata un problema per lui, visto che tutti, chi più chi meno, siamo in grado di comunicare in inglese.

Contrariamente a quanto era avvenuto nel mio primo inverno, la gran parte delle serate è trascorsa guardando un film (anche se quasi mai tutti assieme a causa delle differenti preferenze, infatti spesso ci si divide in due gruppi, quasi ogni volta diversi). Al termine del film, la gran parte delle vote tutti si ritirano nelle proprie camere ed è capitato molte volte di rimanere solo a guardare un episodio di una serie. Tuttora mi succede di ritornare in camera intorno alla mezzanotte, percorrere i vari ambienti della base ormai è deserta e provare la strana, ma bella, sensazione di ritrovarmi in un luogo in cui ero certo di non tornare mai più.

Ovviamente è stato completamente differente, rispetto alla prima volta, trovarsi di fronte ad eventi inusuali nella mia vita, come un giorno intero senza luce, il primo tramonto, il ritorno della luce, il freddo intenso. La stessa visione di spettacoli come il cielo stellato e le aurore, seppur molto emozionanti, non hanno avuto la stessa intensità della prima volta. Come succede per ogni cosa. L’emozione più forte è stata la visione dell’orizzonte infiammato dal sole (anche se era un effetto della rifrazione atmosferica) il 7 agosto, di cui ho raccontato, uno spettacolo che durante la mia prima esperienza mi ero perso per non ricordo più quale motivo.

Come ho già avuto modo di approfondire, la presenza di internet, quasi del tutto assente 11 anni fa, se da una parte ha facilitato enormemente alcune operazioni, dall’altra ha consentito un contatto con il mondo esterno forse eccessivo e ciò sicuramente ha una influenza profonda anche sulle dinamiche di gruppo. Le continue videoconferenze, soprattutto quelle avute con le scuole, nel primo periodo, fino ai primi giorni di giugno, per me hanno rappresentato più che altro una fonte di stress (e in effetti dopo l’ultima ho provato un senso di liberazione). E’ ovvio che le comunicazioni con i propri cari sono enormemente facilitate e ciò allevia la sensazione di isolamento, ma se usato in maniera eccessiva ed inconsapevole, a volte il troppo contatto con l’esterno può avere un effetto deleterio in quanto si ha una perenne sensazione di nostalgia per la vita e le persone del mondo “normale”. E poi, almeno per quanto mi riguarda, vedere persone che continuamente scambiano messaggi al cellulare o semplicemente visitano pagine sui cosiddetti “social” mentre si sta assieme guardando un film o semplicemente chiacchierando, è uno “spettacolo” piuttosto triste, probabilmente perché faccio un continuo confronto con il mio primo inverno, quando tutto ciò non c’era e in cui la sensazione dell’isolamento, la parte più intima di questa esperienza, era stata molto più intensa.

MENO SESSANTA

Non è un riferimento alla temperatura, ma al numero dei giorni che, più o meno, mancano alla fine del periodo invernale. Attualmente l’aereo con il primo carico di personale estivo è previsto per l’1 novembre, ma come già spiegato, fissare una data, che comporti movimentazione di mezzi o persone per o dall’Antartide e all’interno del continente, ha valenza puramente indicativa. Circa due mesi, quindi, che spero trascorrano in maniera tranquilla così com’è stato sinora, sperando che non vi siano ulteriori problemi con la strumentazione.

 

 

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